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RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI

IL DILEMMA DEL COMMESSO VIAGGIATORE: UNO STUDIO COMPUTERIZZATO

D. Basso, Patrizia S. Bisiacchi

Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Introduzione

La ricerca si propone di studiare l’abilità di pianificazione attraverso un esperimento computerizzato che propone ai soggetti delle situazioni rappresentanti il classico "dilemma del commesso viaggiatore", noto in letteratura con la sigla T.S.P. (da Traveling Salesman Problem, Cadwallader, 1975). Il compito del soggetto è di organizzare un itinerario passando attraverso dei punti prefissati nello spazio, in modo tale da ottimizzare il percorso e il tempo impiegato. Il modello proposto da Gärling e collaboratori (Gärling et al. 1986, Hirtle e Gärling, 1992): prevede che la formazione di un piano sia un processo cognitivo soggetto a limitazioni da parte della capacità della memoria a breve termine. Ne deriva che, in un compito quale l’organizzazione di un viaggio di lavoro da parte di un rappresentante, il primo stadio nella formazione di un piano consisterà nella lista delle commissioni da eseguire. In seguito, dalla mappa cognitiva si deriveranno le localizzazioni dei luoghi. Seguirà uno stadio decisionale riguardante l’ordine in cui eseguire le varie commissioni. Infine, si avranno le decisioni su quale percorso seguire. Nelle decisioni sul percorso da eseguire i soggetti sembrano utilizzare alcuni criteri ricorrenti: gli autori individuano una strategia globale, una strategia di ordinamento in gruppi di mete (clusters) con successiva localizzazione all’interno di ciascuno di questi cluster e sono concordi sulla presenza della strategia della distanza minima locale.

Inoltre, per formulare un piano adeguato, occorre includere anche un processo di decisione riguardo a quale azione eseguire. Tale decisione necessita la messa in atto di processi anticipatori, in parte non consapevoli, che permettono di estrapolare o anticipare il possibile risultato dell’azione. Tali processi anticipatori vengono realizzati sulla base delle informazioni accessibili al momento e delle esperienze immagazzinate dal soggetto precedentemente

Studi precedenti come Hayes-Roth & Hayes-Roth (1979), Gärling et al. (1986), Hirtle & Gärling (1992), Sgaramella, Bisiacchi e Falchero (1995) hanno studiato la pianificazione utilizzando o l’ordine delle tappe raggiunte, o la lunghezza del percorso, o entrambi, ma mai misurando, parallelamente a questi, i tempi parziali e totali utilizzati per risolvere il problema. La ricerca, studiando i tempi di reazione delle varie componenti, si propone di verificare se la pianificazione sia un processo ‘a cascata’, che continua anche durante la risoluzione del compito oppure se sia un processo predeterminato.

Materiali e metodo

All’esperimento hanno preso parte 52 studenti della Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova (26 maschi e 26 femmine, di età media 20,3 anni). I soggetti si sedevano davanti ad uno schermo di computer e venivano loro presentate le seguenti parti:

1- 4 prove di tempi di reazione (15 stimoli x 4 tipi di TR);

2- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘con scia’;

3- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘colori’.

Ogni sessione richiedeva circa 25-30 minuti.

Ogni situazione-test era composta da una griglia di 7 colonne e 5 righe ordinate in modo da formare una serie di 35 incroci. Compito dei soggetti era di muovere una silhouette attraverso i tasti freccia dalla tappa di partenza (un quadrato blu nell’incrocio in alto a sinistra) alla tappa di arrivo (un quadrato rosso in basso a destra), toccando tutte le tappe intermedie presenti (posizionate solamente sugli incroci). La silhouette lasciava, al suo passaggio, una traccia sullo schermo.

Nel tipo di compito ‘con scia’ era possibile raggiungere tutte le tappe nell’ordine preferito; le sei situazioni differiscono tra loro nel numero di tappe presenti: nel livello di difficoltà più basso le tappe erano 4+l’arrivo, nel sesto e ultimo livello esse erano 9+l’arrivo.

Nel tipo di compito ‘colori’ alcune tappe erano di colori differenti e potevano essere raggiunte solamente nell’ordine descritto da una sequenza illustrata a fianco; tutte le situazioni contenevano 9 tappe + l’arrivo e i livelli di difficoltà rappresentavano la quantità di tappe "vincolate" presenti (difficoltà 1 aveva 7 tappe libere + 2 vincolate; difficoltà 6 aveva 2 tappe libere + 7 vincolate).

Sono state prese le seguenti misure: 1- il tempo per cominciare la prova; 2- il tempo e il numero di mosse richieste per raggiungere ogni tappa fino alla tappa finale; 3- l’ordine nel quale sono state raggiunte le tappe; 4- tempi di reazione e numero di errori delle quattro prove di TR.

Per analizzare i percorsi prodotti dai soggetti sono stati definiti 4 tipi di strategie visuospaziali e, solamente per il tipo di compito ‘colori’, 3 tipi di strategie con vincoli: ad ogni percorso veniva attribuito l’uso di una (o più) strategie se l’ordine, nel quale venivano raggiunte le tappe, ne soddisfava i requisiti. È stato infine calcolato un ‘indice di programmazione’ (filtrando la distanza delle tappe e le caratteristiche individuali dei soggetti dai tempi intermedi alle tappe), che rappresenta un modo per confrontare la programmazione richiesta per scegliere via via le tappe da raggiungere.

Risultati e conclusioni

È stata eseguita un’ANOVA sul ‘tempo di programmazione’, ossia sul tempo che intercorre tra la comparsa delle tappe ed il primo spostamento effettuato, senza riportare differenze per i 6 livelli di difficoltà (con scia: F(5,311)=0,96; colori: F(5,311)=1,45). L’analisi della varianza è risultata significativa, rispetto al livello di difficoltà (com’era lecito aspettarsi), sia per il tempo di esecuzione (con scia: F(5,311)=8,24; colori: F(5,311)=6,31) che per il numero di passi (con scia: F(5,311)=88,57; colori: F(5,311)=18,64).

L’analisi delle strategie del tipo ‘con scia’, attraverso l’indice rho di Spearman, ha dimostrato che i soggetti preferiscono usare una stessa strategia dall’inizio alla fine del percorso quando esso è composto da poche tappe, mentre quando il numero aumenta, essi tendono ad operare dei cambi di strategia durante la sua realizzazione (rho(306)=.44; sig.<0.001). L’indice rho di Spearman, applicato alle strategie del tipo ‘colori’, indica che i soggetti, quando ci sono poche tappe vincolate, applicano una strategia combinata visuospaziale e con vincoli, mentre all’aumentare del numero di tappe vincolate, tende a sparire l’uso di strategie visuospaziali (rho(.52; sig.<0,001).

I dati precedentemente citati indicano che la programmazione iniziale non è sufficiente per coprire tutto il compito e tendono a confermare l’ipotesi che essa continua durante il percorso. Questa supposizione trova un’ulteriore conferma con l’analisi dell’indice di programmazione: è stata condotta una serie di t-test a coppie per verificare la significatività delle medie dell’indice. Per entrambi i compiti risultano differenti i valori dell’indice nella prima tappa (perché la programmazione è avvenuta prima della partenza) e nell’ultima (non occorre effettuare una scelta se essa è l’ultima tappa che rimane da toccare). I valori delle altre tappe, per quel che riguarda il tipo ‘con scia’, non sono differenti l’uno dall’altro e formano, nei grafici, una zona ‘in piano’: ciò viene attribuito ad una programmazione in quanto nel primo e nell’ultimo tratto (quando a ragione la p. non dovrebbe esserci) i valori sono minori, e tende a conferma di una quantità limitata di risorse cognitive deputate dal soggetto per la risoluzione del compito. Per quel che riguarda invece il compito ‘colori’, si assiste ad un accrescimento globale dei valori intermedi (dovuto alla relativa maggiore difficoltà del compito per il soggetto che, per una pianificazione proficua, deve tener conto anche delle tappe vincolate), e specialmente per i primi 4 valori con una differenza significativa riscontrata tra la 4a e la 5 a tappa (giustificata dalla memorizzazione no ancora completata ed il mantenimento in memoria a breve termine dell’ordine delle tappe vincolate).

Lo studio ha dimostrato che la programmazione non è un processo che si esplica una tantum prima di partire, ma, una volta che il soggetto ha programmato una certa quantità, egli parte e prosegue la programmazione della traiettoria restante durante la realizzazione stessa del percorso.

Inoltre il test computerizzato PIANTINE si propone come un valido sussidio per lo studio della pianificazione nei dettagli; non solo nella popolazione normale, ma anche per la valutazione dei traumatizzati cranici frontali, i quali mostrano deficit in questa funzione cognitiva.

Riferimenti bibliografici

Cadwallader, M. (1975). A behavioral model of consumer spatial decision making. Economic Geography, 51, 339-349.

Duncan, J. (1986). Disorganization of behavior after frontal lobe damage. Cognitive neuropsycho-logy, 3, 271-290.

Gärling, T. (1994). Processing of time constraints on sequence decisions in a planning task. European Journal of Cognitive Psychology, 6 , 399-416.

Gärling, T., Säisä, J., Böök, A.& Lindberg, E. (1986). The spatiotemporal se-quencing of everyday activities in the large-scale environment. Journal of En-vironmental Psychology, 6, 261-280.

Hayes-Roth, B. & Hayes-Roth, F. (1979). A cognitive model of planning. Cognitive Science, 3, 275-310.

Hirtle, S. & Gärling, T.(1992). Heuristic rules for sequential spatial decisions. Geoforum, 23, 227-238.

Sgaramella T.M , Bisiacchi P.S. e Falchero, S. (1995) Ruolo dell’età nella pianificazioni di azioni nello spazio, Ricerche di Psicologia, 2, 19, 265-281.

STRATEGIE AUTO RIFERITE NELLA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO. STUDIO DEI CORRELATI COGNITIVI

Andrea Bosco

Dipartimento di Psicologia, Università di Roma "La Sapienza"

Lawton (1994, 1996), sulla base delle autovalutazioni di soggetti impegnati in compito di ritrovamento di una strada, ha individuato due strategie di recupero delle informazioni dalla memoria basate su rappresentazioni mentali in prospettiva egocentrica, che l’autore definisce route strategy o in prospettiva eterocentrica, orientation strategy. Il presente lavoro si propone di indagare i correlati cognitivi delle strategie di rappresentazione mentale dello spazio mediante uno strumento di recente costruzione (Questionario Situazionale d’Orientamento Spaziale – QSOS; e.g. Bosco, 1999) in grado di fornire una misura auto riferita dell’uso di strategie dei due tipi: a) route e b) survey. La presente ricerca è tesa alla verifica sperimentale delle seguenti ipotesi:

1) è possibile identificare soggetti con preferenza per l’una o l’altra strategia di rappresentazione mentale dello spazio ma anche soggetti che mostrano "passaggi" dall’una all’altra strategia secondo diversi fattori;

2) se la survey knowledge rappresenta il più efficiente livello di conoscenza dello spazio, chi usa preminentemente la strategia survey dovrebbe pure essere più abile rispetto ad altri in compiti cognitivi spaziali semplici e complessi;

3) i soggetti con preferenza della strategia route, più ancorati cioè alla route knowledge, dovrebbero essere più abili dei soggetti appartenenti agli altri gruppi nei compiti di ricordo di un percorso noto;

4) se vi sono soggetti che passano dall’una all’altra rappresentazione mentale agevolmente, tale competenza potrebbe essere legata all’abilità in compiti cognitivi semplici.

Metodo

La misura che si ottiene dal questionario consiste nella frequenza d’uso di tre strategie: due di tipo spaziale (route e survey) e una non spaziale. Il questionario è stato somministrato a 413 soggetti. Mediante analisi dei cluster abbiamo ottenuto un modello a sei gruppi Nella seconda fase 117 soggetti, ripartiti in cinque dei sei gruppi, sono stati sottoposti alla somministrazione di una batteria di prove cognitive spaziali:

1) compito di scansione dello spazio (labirinto);

2) compito di rotazione mentale, (mani destre e sinistre);

3) span di Corsi;

4) memoria a lungo termine;

5) Compito di ricostruzione di una mappa della città di appartenenza;

6) Compito di ricordo di un percorso molto noto della città di appartenenza.

Risultati

I Indagine

Analisi dei tre gruppi "preferenza " (survey, Route I e Route II). La struttura fattoriale indica che il predittore più rilevante della prima funzione discriminante è il compito di ricostruzione di mappa (peso fattoriale: -0,57), ove il gruppo "preferenza survey" mostra la migliore prestazione. Il predittore più rilevante della seconda funzione discriminante è il compito di memoria a lungo termine (peso fattoriale: 0,57), ove il gruppo "preferenza route I" mostra la peggiore prestazione.

Analisi sui due gruppi "congruenza" (con il compito, con la conoscenza). Dalla struttura fattoriale emerge che il predittore con il maggiore contributo alla discriminazione dei due gruppi è la prova di span visuo-spaziale (peso fattoriale: 0,47) mediante il Corsi Block Test. La direzione dell’effetto è in termini di una migliore prestazione del gruppo "congruente con il compito" rispetto all’altro.

II indagine

Una seconda analisi è stata condotta su una nuova batteria di prove:

1) Mental Rotation Test (Vandenberg & Kuse, 1978);

2) Digit span in avanti e indietro Le prova di span di cifre del WAIS;

3) una prova sulle strategie di ragionamento;

4) una prova di discriminazione di figure e parole che indicano direzione;

5) indice dell’"effetto destra-sinistra".

Tale analisi comprendeva esclusivamente soggetti, del campione dei 117, di età compresa tra 21 e 34 anni, che mostravano le distanze di Mahalanobis più piccole dal proprio centroide di gruppo. Le analisi condotte su questi nuovi gruppi confermano e ampliano i risultati ottenuti nella prima indagine.

Conclusioni

1) Vi sono sia gruppi con preferenza per una strategia di rappresentazione mentale dello spazio, sia gruppi con una modalità di rappresentazione che varia al variare di un fattore rilevante.

2) L’uso predominante della strategia survey, sembra effettivamente identificare soggetti meglio dotati sul piano tanto delle competenze di base, quanto dei compiti complessi: a) di ricostruzione di mappe (compito survey per eccellenza), b) di ricostruzione di un percorso noto.

3) I soggetti con preferenza della strategia route, non mostrano maggiore perizia dei soggetti con preferenza survey nei compiti di ricostruzione di un percorso noto.

4) I soggetti "congruenti con il compito" e "congruenti con la conoscenza" si differenziano tra di loro solo sulla base di prove molto semplici come la prova di Span visuo-spaziale e di riconoscimento di etichette verbali di direzione, in entrambi i casi a favore dei "congruenti con il compito". Ricerche future saranno volte alla selezione di nuovi predittori per definire meglio le caratteristiche dei gruppi secondo un modello multifattoriale che dovrebbe comprendere prove di intelligenza fluida, di intelligenza cristallizzata e di rapidità percettiva.

Riferimenti bibliografici

Bosco, A. (1999). Abilità e strategie nelle rappresentazioni mentali dello spazio. Correlati cognitivi e differenze individuali del "senso dell’orientamento". Tesi di Dottorato non pubblicata.

Lawton, C. A. (1994). Gender differences in way-finding strategies: Relationship to spatial ability and spatial anxiety. Sex Role, 30, 765-779.

Lawton, C. A. (1996). Strategies for indoor wayfinding: The role of orientation. Journal of Environmental Psychology, 16.

Siegel, A.W., & White, S.H. (1975). The development of spatial representations of large-scale environments. In H.W. Reese (Ed.), Advances in Child Development and Behavior. (Vol. 10, pp. 9-55). New York: Academic.

Vandenberg, S.G., & Kuse, A.R. (1978). Mental rotations: A group test of three dimensional spatial visualization. Perceptual and Motor Skills. 47, 599-604.

Yoshino, R. (1991). A note on Cognitive maps: An optimal spatial knowledge representation. Journal of Mathematical Psychology, 35, 371-393.

COSA CI INSEGNANO LE INFERENZE ILLUSORIE RELATIVAMENTE ALLA COMPRENSIONE DEI CONDIZIONALI

Paolo Cherubini

Università di Padova

Introduzione

Le "inferenze illusorie" sono una classe di problemi deduttivi che la quasi totalità degli individui risolve fornendo una risposta apparentemente ovvia ("illusoria") ma assolutamente erronea dal punto di vista logico. La possibilità di inferenze illusorie è una diretta conseguenza della teoria dei modelli mentali (Johnson-Laird e Savary, 1996). Un esempio di "inferenza illusoria" è il seguente (Johnson-Laird e Savary, 1996, 1998; Johnson-Laird, Legrenzi, Girotto, Sonino-Legrenzi, Caverni, 1998):

  1. Solo una delle due seguenti frasi si applica ad una specifica mano di carte (che non puoi vedere):
  2. Se nella mano c’è un Re, allora c’è anche un Asso.
  3. Se nella mano c’è una Regina, allora c’è anche un Asso.

Gli individui tipicamente concludono che nella mano di carte è senz’altro possibile la presenza dell’Asso, ad anzi esso è più probabile sia del Re sia della Regina (xxx). Da un punto di vista logico, la presenza dell’Asso nella mano è impossibile. Le condizioni di verità logiche di una frase condizionale sono le seguenti:

antecedente (p)

conseguente (q)

SE p ALLORA q

vero

vero

vero

vero

falso

falso

falso

vero

vero

falso

falso

vero

In altri termini, una frase condizionale è falsa se e solo se il suo antecedente è vero ed il suo conseguente è FALSO. Dato che la premessa 1 stabilisce esplicitamente che una delle due premesse 2 e 3 è falsa, ne segue che l’asso non può essere presente nella mano.

Una previsione diretta della spiegazione offerta dalla teoria dei modelli mentali per tali fenomeni è che, facilitando la focalizzazione sulle "condizioni di falsità", le risposte illusorie dovrebbero ridursi (Newsome e Johnson-Laird, 1996; Johnson-Laird e Goldvarg, 1997). Un’ipotesi alternativa è che gli individui siano in grado di rappresentare le condizioni di falsità, ma che queste siano differenti da quelle previste dalla logica. Nel corso di tre esperimenti esplorerò queste ipotesi, per cercare di appurare i processi mentali soggiacenti le inferenze illusorie e la comprensione delle frasi condizionali.

In un primo esperimento si manipola il contesto di presentazione dei problemi illusori. I risultati (analizzati con statistiche loglineari) evidenziano un’interazione: un contesto che enfatizzi la rappresentazione del "falso" riduce l’illusione solo nei problemi che non contengono premesse condizionali.

In un secondo esperimento, chiedendo la valutazione vero/falso di diverse premesse condizionali e disgiuntive alla luce di diverse possibili situazioni di riferimento, si trova che mentre le frasi disgiuntive sono comprese secondo la loro tavola di verità standard, le frasi condizionali vengono valutate con condizioni di verità differenti da quelle logiche; in particolare, sembra che gli individui applichino ad esse una tavola di verità congiuntiva (ovvero: un condizionale si rivela vero solo quando sia il suo antecedente sia il suo conseguente sono veri). In forza di queste condizioni di verità, le risposte illusorie non possono più essere considerate erronee.

Viene quindi avanzata un’ipotesi per spiegare perché, in questi problemi, i condizionali vengano interpretati come congiunzioni. Si ipotizza che la valutazione di un condizionale avvenga in due stadi:

  1. stadio pragmatico: si valuta la possibilità dell’antecedente nel dominio di riferimento della frase; se l’antecedente è impossibile (falso in tutti i "mondi possibili" che compongono il dominio) la frase viene valutata automaticamente falsa, e non si procede al passo successivo; se l’antecedente è possibile (vero in almeno un "mondo possibile" del dominio) si procede allo stadio logico;
  2. stadio logico: la frase viene valutata secondo le condizioni di verità standard: risulta vera se non vengono osservati casi in cui l’antecedente é vero e il conseguente è falso, falsa se vengono osservati tali casi.

In altri termini, dire "Se p allora q" non significa solo "q è vero in ogni situazione in cui p è vero", ma, più esaustivamente, "p è possibile; inoltre, q è vero in ogni situazione in cui p è vero".

Il modello è stato formalizzato, ed è possibile dimostrare come esso sia potenzialmente in grado di rendere conto di note anomalie del ragionamento condizionale come le "tavole di verità difettive" (Wason e Johnson-Laird, 1972) e l’esito del compito di selezione di Wason (Wason, 1968); ovviamente, esso rende anche conto delle "tavole di verità congiuntive" osservate nell’esperimento 2.

Alla luce dell’ipotesi fatta, nel terzo esperimento si presenta un’illusione composta da premesse condizionali in un contesto in cui le condizioni pragmatiche di verità di tali frasi sono soddisfatte (contesto "logico"; 20 soggetti), e la si pone a confronto con la medesima illusione presentata in un contesto dove le condizioni pragmatiche di verità delle frasi non sono state soddisfatte (contesto "pragmatico"). L’analisi dei risultati (chi-square) mostra come le risposte illusorie siano significativamente superiori nel contesto pragmatico, mentre le risposte logicamente corrette siano significativamente superiori nel contesto logico.

In breve, la facilitazione nei problemi illusori contenenti frasi condizionali non discende tanto dall’ "enfasi sul falso", ma piuttosto dal fornire proposizioni pragmaticamente plausibili.

Conclusioni

Alla luce delle ricerche eseguite si conclude che la spiegazione offerta dai modelli mentali relativamente alle inferenze illusorie non è completa. Sembra, infatti, che esse non compaiano per una "difficoltà" nel rappresentarsi la falsità logica delle premesse. Piuttosto, sono dovute alla rappresentazione di "condizioni di falsità" differenti, pragmaticamente orientate. Qualora si impedisca l’uso di tali "condizioni di falsità" pragmatiche, offrendo premesse pragmaticamente plausibili, i soggetti si mostrano in grado di fornire le risposte logicamente corrette (sono quindi in grado di usare le corrette condizioni di verità logiche).

Il modello a "due stadi" proposto per la comprensione delle frasi condizionali introdotto in questo studio mostra un elevato potere esplicativo nei confronti di molti fenomeni del ragionamento proposizionale finora studiati. Inoltre, esso costituisce una possibile base per gettare le fondamenta di quell’ "anello mancante" tra teorie del ragionamento proposizionale e teorie pragmatiche del linguaggio di cui da tempo si sentiva la necessità.

Riferimenti bibliografici

Johnson-Laird, P.N. & Goldvarg, V. (1997). How to make the impossible seem possible. Proceedings of the Nineteenth Annual Conference of the Cognitive Science Society. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum.

Johnson-Laird, P.N. & Savary, F. (1996). Illusory inferences about probabilities. Acta psychologica, 93, 69-90.

Johnson-Laird, P.N. & Savary, F. (1998). Illusory inferences: a novel class of erroneous deductions. Cognition, in press.

Johnson-Laird, P.N., Legrenzi, P., Girotto, V., Legrenzi, M. S., and Caverni, J-P. (1998) Naive Probability: A model theory of extensional reasoning. Psychological Review, in press.

Newsome, M.R., and Johnson-Laird, P.N. (1996). An antidote to illusory inferences? In Cottrell, G.W. (Ed.) Proceedings of the Eighteenth Annual Conference of the Cognitive Science Society. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates, p. 820.

Wason, P.C. & Johnson-Laird, P.N. (1972). Psychology of reasoning: structure and content. London, UK: Batsford.

Wason, P.C. (1968). Reasoning about a rule. Quarterly journal of experimental psychology, 20, 273-281.

EFFETTO DELL’INVARIANZA NEL RISCHIO

Alessandro Couyoumdjian

Dipartimento di Psicologia, Università di Roma "La Sapienza"

ECONA, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva nei Sistemi Naturali e Artificiali

In letteratura la ricerca sulla psicologia del rischio è principalmente connessa allo studio della valutazione soggettiva che gli individui fanno riguardo a particolari eventi e alle differenze individuali relative all’attuazione di comportamenti rischiosi. Raramente vengono prese in considerazione le componenti cognitive alla base sia della percezione del rischio sia del comportamento rischioso. Questo stato di cose rispecchia forse la difficoltà di inquadrare e caratterizzare il concetto di rischio a livello dell’elaborazione cognitiva. Potrebbe sembrare inadeguato, infatti, parlare di rischio dal punto di vista della percezione psichica in quelle attività in cui non è richiesta una esplicita valutazione dei rischi, e quindi della probabilità di occorrenza di un evento e della entità del danno che tale evento potrebbe arrecare verificandosi. In questi casi, come ad esempio sciare, guidare un autoveicolo, o lavorare ad una pressa, sembra importante individuare e comprendere i fattori che inducono errori sistematici nell’elaborazione cognitiva della situazione.

In qualsiasi attività rischiosa che si protrae nel tempo è plausibile ipotizzare che il comportamento dell’individuo sia influenzato, oltre che dalle informazioni ambientali, dalla "struttura" degli eventi o degli esiti passati relativi all’attività stessa. In particolare, nel presente studio, svolto in collaborazione con Marta Olivetti Belardinelli, viene indagato l’effetto sul comportamento di rischio di una condizione di invarianza, in cui la persona esperisce una serie consecutiva di successi. Si ipotizza che più questa condizione di invarianza perdura nel tempo, meno l’individuo è in grado di elaborare e affrontare efficacemente la situazione.

Per verificare l’ipotesi è stato sviluppato un programma informatico in cui i soggetti (N=72) dovevano cercare di acquisire il maggior numero di punti bloccando una sequenza di carte, rosse o blu, sulla carta su cui avevano puntato. I soggetti dovevano eseguire il compito 140 volte. All’inizio di ogni prova la composizione del mazzo (ossia la proporzione di carte rosse e blu) veniva cambiata e controllata sperimentalmente. In base a tale composizione i soggetti avevano la possibilità di scegliere tra due strategie di rischio: una conservativa, a rischio minore; l’altra d’azzardo, a rischio maggiore. Al di sotto dell’esperimento vi era un inganno, in quanto i soggetti non avevano alcuna influenza sull’esito di ciascuna prova. Le vincite e le perdite erano infatti controllate sperimentalmente in modo da costituire 14 blocchi da 10 prove ciascuno in cui all’inizio si avevano o 2 vittorie (condizione di invarianza breve) o 4 vittorie (condizione di invarianza lunga). Per controllare un possibile effetto della frequenza le vincite e le perdite avevano la stessa probabilità di occorrenza.

Per l’analisi dei dati sono stati considerati i tempi di reazione per ciascuna prova e il tipo di strategia utilizzata (rischio alto, rischio basso). Se la condizione di invarianza influenzasse l’elaborazione cognitiva e il comportamento, si dovrebbe evidenziare una differenza significativa dei tempi di reazione della strategia di rischio per le condizioni sperimentali considerate. Sono stati utilizzati, oltre all’analisi della varianza, i metodi di analisi delle serie temporali (auto-correlazione, cross-correlazione, analisi di Fourier), le analisi per l’attendibilità del test (split-half) e i test bayesiani per la verifica delle ipotesi. I risultati confermano l’ipotesi secondo la quale una struttura invariante degli eventi precedenti determina un ottundimento della percezione degli indizi di rischio provenienti dall’ambiente.

GLI EFFETTI DELLA DEPRIVAZIONE VISIVA NELLA COSTRUZIONE DEI CONCETTI

Dario Galati* Carla Tinti°, Mauro Adenzato°

* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino

° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

Introduzione

Cos’è un albero? Se si pone questa domanda a qualcuno si otterrà una definizione simile a questa: "un organismo composto da un tronco allungato che generalmente è di colore marrone, dei rami più o meno fitti, delle foglie spesso verdi, radici più o meno profonde e frutti di vari colori". Una simile risposta è tipica di una persona priva di deficit sensoriali. Dall’analisi del contenuto di una tale definizione emerge la presenza di attributi fondamentalmente appartenenti alle categorie della forma e del colore, e ciò non è certo casuale se pensiamo che la maggior parte delle informazioni che dall’esterno giungono ai nostri apparati percettivi, e che da qui vanno ad informare il nostro sistema mente/cervello, provengono dai canali visivo ed acustico. In particolare, per quanto riguarda le informazioni visive, la definizione di albero riportata evidenzia l’importanza che queste informazioni rivestono per la costruzione dei concetti. Data l’importanza di una tale fonte di informazioni, una domanda che appare legittimo porsi è: che cosa può accadere quando queste informazioni sono assenti? Come vengono costruiti ed organizzati i concetti e i significati delle parole in queste condizioni di deprivazione sensoriale?

Per rispondere a queste domande abbiamo analizzato la prestazione fornita da soggetti ciechi congeniti ed acquisiti ad un compito sperimentale da noi appositamente ideato allo scopo di poter comprendere come i processi di significazione si organizzino quando l’informazione visiva, a causa della cecità, è isolata.

L’ipotesi è che tanto più la comprensione di un termine richieda un riferimento alla percezione visiva, tanto maggiore sarà la differenza tra ciechi e vedenti nella costruzione dei significati, lasciando all’analisi dei dati la spiegazione di tali differenze.

Metodo

Soggetti

Il campione sperimentale era composto da 40 ciechi di cui 23 maschi e 17 femmine (età media 42;3 anni). Ventidue di loro erano ciechi congeniti e 18 ciechi tardivi. Il gruppo di controllo era composto da 40 persone vedenti confrontabili per età, sesso e scolarità al gruppo sperimentale.

Materiale

Il questionario era formato da 15 termini il cui significato implicava in gradi diversi riferimenti a informazioni di carattere percettivo in generale o specificatamente visivo. Venivano inoltre presentati 5 nomi di categorie sovraordinate (fiori, veicoli, verdure, frutta e vestiario).

Procedura

I soggetti venivano testati individualmente. Lo sperimentatore leggeva loro un item alla volta. La somministrazione degli item era randomizzata. Per ognuno dei termini veniva chiesto sia di indicarne le caratteristiche essenziali che di darne una definizione. Si presentavano poi tutti i termini in coppia l’uno con l’altro e per ciascuna coppia il soggetto doveva indicare il grado di somiglianza. Per queste prove non si poneva limite di tempo. Un ulteriore compito consisteva nel presentare una categoria sovraordinata e nel chiedere al soggetto di elencare tutti i nomi che riusciva ad associare a tale categoria. Il tempo a disposizione per quest’ultima prova era di 1 minuto e mezzo.

Risultati

I risultati sono in corso di elaborazione. Sulla base dei risultati finora acquisiti emergono alcune interessanti differenze tra ciechi congeniti e vedenti.

RAPPRESENTAZIONI DIAGRAMMATICHE NELLA SOLUZIONE DI PROBLEMI PER ANALOGIA

Francesco Saverio Marucci, Roberto Pedone

Università di Roma "La Sapienza"

Studi precedenti sulla soluzione dei problemi per analogia hanno mostrato che le analogie-sorgente possono essere utilizzate in modo efficace dai soggetti sia quando venivano mostrate loro in forma verbale (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Keane, 1988; Holyoak e Thagrad 1995; Warthon et al. 1996) che in forma di rappresentazioni visivo-figurale, come disegni, figure o diagrammi (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Gick, 1985; Beveridge e Parkins, 1987; Goswami, 1989, 1992; Thagard, Gochfeld e Hardy, 1992). Inoltre, in modo indipendente dalla forma in cui le analogie vengono presentate, il ragionamento per analogia spesso coinvolge rappresentazioni visive-mentali specialmente quando viene usato in problemi di natura spaziale (Driestadt, 1969; Beck 1978, Chafe, 1976; Kosslyn, 1975,Shepard, 1975).

Nell’ambito dello studio dei processi cognitivi implicati nella soluzione dei problemi tramite analogia, abbiamo condotto una serie di esperimenti che hanno fatto uso di rappresentazioni diagrammatiche presentate visivamente sullo schermo di un computer in condizione di staticità e in condizione di movimento dinamico. I risultati degli esperimenti condotti hanno dimostrato gli effetti delle proprietà percettive dei diagrammi e la loro efficacia come analogie sorgenti per la soluzione del problema delle radiazioni di Dunker (1945) espresso in forma verbale. I diagrammi presentati in condizione statica che rappresentavano lo stato problemico iniziale (una grande forza diretta su un bersaglio) e lo stato finale che rappresentava la soluzione di convergenza (forze convergenti multiple) non venivano richiamati spontaneamente dai soggetti, ma venivano utilizzati con successo quando il richiamo delle configurazioni diagrammatiche era favorito dallo sperimentatore attraverso un suggerimento aspecifico. L’efficacia dei diagrammi presentati in condizione statica come analogie-sorgente non migliorava quando si utilizzavano un numero maggiore di diagrammi, ma il richiamo spontaneo ed il successivo mapping analogico poteva essere facilitato quando insieme ai diagrammi veniva fornita ai soggetti una descrizione verbale del principio di convergenza .

Il risultato di maggior rilievo è stato che il richiamo spontaneo poteva essere notevolmente migliorato quando ai soggetti venivano mostrate le configurazioni diagrammatiche in movimento; ciò facilitava la codifica delle frecce rappresentate nei diagrammi come ‘movimento verso un obiettivò. Il vantaggio dei diagrammi presentati in condizione dinamica rispetto a quelli presentati in condizione statica è stato ottenuto sia quando i diagrammi rappresentavano frecce orientate, sia quando rappresentavano blocchi rettangolari che a differenza delle frecce non mostravano alcun orientamento spaziale. Il trasferimento analogico della soluzione di convergenza ottenuto mediante l’utilizzo dei diagrammi dinamici è stato migliore di quello specificamente osservato quando sono state utilizzate analogie espresse in forma verbale (Gigk e Holyoak, 1980,1983, Keane, 1988, Warthon et al., 1996). Inoltre, né i diagrammi presentati in condizione statica, né quelli presentati in condizione dinamica sono stati in grado di facilitare il trasferimento analogico della soluzione quando in essi erano rappresentate frecce divergenti.

Ci possono essere diverse spiegazioni possibili per gli effetti di facilitazione dimostrati dalle configurazioni diagrammatiche dinamiche. La prima riguarda il fatto che con l’aiuto del movimento, le persone possono essere guidate a codificare i diagrammi come schemi astratti di convergenza (Catrambone e Holyoak 1989;Gick e Holyoak, 1983). La seconda spiegazione, che non esclude la precedente, potrebbe essere riferita al fatto che la soluzione di convergenza dipende, in senso stretto, dalla comprensione della realtà percettiva e fisica delle forze dinamiche convergenti; questo tipo di comprensione poteva essere meglio ottenuta a partire dalla codifica di rappresentazioni diagrammatiche visivo-figurali in movimento (Beveridge e Parkins 1987).

Riferimenti bibliografici

Beck, D. E. F. (1978). Metaphor as a mediatorbetween semantic and analogic modes of thought. Current Anthropology, 19, 83-97.

Beveridge, M. & Parkins, E. (1987). Visual representation in analogicalproblem solving. Memory andCognition, 15 (3), 230-237.

Catrambone, R. Holyoak, K. J. (1989).Overcoming contextual limitations on problem-solving transfer. Journal-of-Experimental-Psychology-Learning,-Memory,-an0d-Cognition. 1989 Nov Vol. 15(6) 1147-1156.

Chafe, W. L. (1976). Creativity inverbalization as evidence for analogic knowledge. In R. C. Shank & B. L. Nash-Webber (Eds.), Theoretical issues in natural language processing (pp. 158-159). Cambridge, MA: Bolt, Beranek, and Newman.

Driestadt, R. (1969). The use of analogies and incubation in obtaining insights in creative problem solving. Journal of Psychology, 71, 159-175.

Duncker, K. (1945). On problem Solving. Psychological Monographs. 58 (5, Whole No. 270).

Gick M. L. (1985). The effect of a diagramretrieval cue on spontaneous analogical transfer. Canadian Journal of Psychology, 39(3), 467-475.

Gick, M. L. & Holyoak, K. J., (1980).Analogical problem solving. Cognitive Psychology, 12, 306-355.

Gick, M. L. & Holyoak, K. J., (1983).Schema induction and analogical trasfer. Cognitive Psychology. 15, 1-28.

Goswami, U. (1989). Relational complexity and the development of analogical reasoning. Cognitive-Development; 1989 Jul Vol 4(3) 251-268.

Goswami, U. (1992) Analogical Reasoning in children. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Holyoak, K. J. & Thagard, P. (1995).Mental leaps: analogy in creative thought. Cambridge, MA: MIT Press, Bradford Books.

Keane, M. T. (1988). Analogical problem solving: Ellis Horwood, Ltd; Chichester, England; Halsted Press; New York, NY, US.

Kosslyn, S. M. (1975). Informationrepresentation in visual images. Cognitive Psychology, 7, 341-370.

Shepard, R. N. (1975). Form, formation and trasformation of internal representations. In R. L.Solso (Ed.), Information processing and cognition (pp.87-122.Hilsdale, NJ: Erlbaum.

Thagard, P., Gochfeld, D., & Hardy, S.(1992). Visual analogical mapping, Proceedings of the Fourteenth Annual Conference of the Cognitive Science Society (pp. 522-527. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Wharton, C. M., Holyoak, K. J., & Lange, T.E. (1996). Remote analogical reminding. Memory and Cognition, 24, 629-643.

LA RAPPRESENTAZIONE SPAZIALE DELL’AMBIENTE NEL NON-VEDENTE

Carla Tinti°, Dario Galati*

* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino

° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

Introduzione

Per orientarsi efficacemente nell’ambiente si possono utilizzare due tipi strategie che consistono nell’utilizzo di due diverse rappresentazioni: route o survey (ÒKeefe e Nadel, 1978). Il primo tipo di rappresentazione è basata sull’individuazione di alcuni punti di riferimento lungo un percorso e da una sequenza di azioni che guidano il cammino. Le informazioni sul percorso sono organizzate serialmente e non possono venire riorganizzate, ragion per cui se ne manca una il tragitto non può essere completato. Lo schema di riferimento nel procedere é egocentrico e nell’insieme la rappresentazione risulta priva di plasticità. La rappresentazione di tipo survey, invece, implica l’elaborazione delle relazioni di direzione e distanza tra luoghi, indipendentemente dalla posizione del soggetto. Lo schema di riferimento infatti non é centrato sulla persona ma è assoluto e costruito sulla base di indizi distali. Nell’insieme, queste caratteristiche rendono questo tipo di rappresentazione molto plastica. L’esplorazione dell’ambiente circostante verrebbe cioè guidata da una "mappa cognitiva" (Neisser, 1976).

I due tipi di rappresentazione ipotizzate vengono usate entrambe dalle persone vedenti a seconda della situazione. La rappresentazione di tipo route sarebbe sufficiente nel percorrere luoghi molto familiari, qualora non vi siano impedimenti lungo il cammino; quella di tipo survey sarebbe invece importante per stimare la direzione di luoghi al di fuori del campo visivo come quando si deve individuare la direzione di un certo luogo immaginando di essere in un altro, o laddove insorgano degli ostacoli durante il percorso che costringono ad una deviazione.

Lo scopo del presente lavoro è quello di capire in che modo le persone non-vedenti si rappresentino ed elaborino l’informazione spaziale e, in particolare, di capire se anche in assenza della vista si possa riuscire ad utilizzare una rappresentazione di tipo survey. Da un lato questo può risultare estremamente utile alla ricerca sulla riabilitazione dell’orientamento e delle capacità di movimento autonomo. Dall’altro studiare il tipo di rappresentazione e di elaborazione spaziale nei ciechi, capire quale informazione viene persa in assenza della visione e come questa informazione può essere sostituita da altre modalità sensoriali, permette di chiarire il ruolo della visione nei processi rappresentazionali e di elaborazione stessi.

Metodo

Soggetti

Il campione sperimentale era composto da 34 ciechi di cui 20 maschi e 14 femmine (età media 42 anni). Venti di loro erano ciechi congeniti, mentre 14 avevano perso la vista in età adulta. Tutti i partecipanti si trovavano nelle condizioni fisiche per poter svolgere i compiti proposti, ciascuno di loro era inoltre in grado di muoversi nella città da solo con l’aiuto del bastone. Il gruppo di controllo era composto da 60 persone normovedenti comparabili per età e scolarità al gruppo sperimentale.

Materiale

L’esperimento è stato effettuato in una sala molto spaziosa nella quale erano stato costruiti due percorsi che differivano per lunghezza e complessità. Il percorso più semplice era formato da 4 tratti rettilinei lunghi 1.55; 2.60; 4.70 e 1.70 m rispettivamente e da 4 angoli di 90°. Il tragitto complessivo che i soggetti dovevano compiere era complessivamente di 10.5 m. Il secondo percorso era più lungo e comprendeva due svolte in più. I tratti rettilinei da percorrere erano 6 di lunghezza pari a 1,57; 1,90; 2,00; 2,60; 4,70 e 1,70 m. Il tragitto complessivo da percorrere era dunque di 14, 47 m e, anche in questo caso, gli angoli erano tutti di 90°.

Procedura

Il compito dei soggetti consisteva nel completare i percorsi e successivamente di rispondere a delle domande sui percorsi stessi. I soggetti vedenti eseguivano l’intera prova bendati. Le domande che venivano loro poste riguardavano la direzione e la distanza che intercorreva da dei punti precedentemente stabiliti ed erano studiate in modo tale che per rispondere il soggetto doveva fare riferimento ad una rappresentazione spaziale di tipo survey. La parte finale della prova consisteva nel far disegnare a ciascuno il percorso fatto.

Risultati

I risultati sono in corso di elaborazione. È stata confrontata la prestazione dei soggetti ciechi congeniti sia con quelli vedenti che con quelli tardivi. Dalle analisi preliminari si rileva che i ciechi congeniti hanno delle prestazioni equivalenti e, in certi casi, migliori, rispetto ai ciechi tardivi e ai vedenti. Sembra quindi che i soggetti ciechi siano in grado di formarsi una rappresentazione di tipo survey di un percorso fatto per la prima volta in modo non significativamente diverso rispetto ai soggetti vedenti

Riferimenti bibliografici

Neisser, U. (1976). Cognition and reality. San Francisco: Freeman.

ÒKeefe, J., e Nadel, L. (1978). The hippocampus as a cognitive map. London: Oxford University Press.


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